La didascalia sul proiettile è concisa ma essenziale: “Granata austroungarica da 420 mm, peso a vuoto 12 q.li, più 70 kg di esplosivo. Gittata massima oltre 10 km, altezza totale 161 cm”. Sembra una scultura posta a fianco di altre più piccole, perfetta, affusolata, un siluro volante bloccato al pavimento del museo dalla newtoniana forza di gravità. Anche inertizzato e immobile fa paura, possiamo solo lontanamente immaginare l’effetto del suo scoppio tra le linee italiane, con spostamenti d’aria capaci di sradicare e defogliare un bosco nel raggio di un centinaio di metri.
Nel secondo conflitto mondiale gli americani chiamarono questo genere di ordigni “Block Buster”, (spiana quartieri), tanta era la loro potenza distruttiva. Se durante la seconda guerra viaggiavano comodamente nelle carlinghe dei Lancaster, nel ’15-’18 venivano lanciati da un bossolo poderoso, un “secchione” d’ottone di pari calibro, su cui la bomba poggiava al momento del tiro. Per diversi motivi ne esistono oggi pochi esemplari, infatti costavano una cifra esorbitante di marchi anche per le casse dell’Impero, ne furono prodotti un numero relativamente esiguo. Inoltre, l’impiego di tali bocche da fuoco, richiedeva una continua rettifica balistica e meccanica già dopo pochi tiri, infine trasportare e mettere in funzione una batteria da 420 comportava un particolare apparato logistico composto da numerosi uomini e mezzi.
Una di queste ciclopiche granate è esposta al Museo della Grande Guerra di Canove (sull' Altopiano di Asiago), ha una storia tutta sua. Venne trovata da un recuperante, tale Sambugaro “Nardi”, sulla dorsale delle Melette nei primi anni ’70. “Uno scavo maledetto- ebbe a dire il rinvenitore- il colpo sui era
conficcato nel terreno per qualche metro, e per estrarlo fu necessario armare con tavole le pareti di terra e pietra che altrimenti sarebbero franate”. Ovviamente venne scaricato sul posto ed il lungo detonatore fatto brillare in una grotta vicina. Portare l’ammasso ferroso in località campanella, residenza del “Nardi”, fu una impresa, altrettanto difficile si rivelò tenere segreta la notizia del ritrovamento. Per qualche anno la granata rimase nascosta tra lamiere e tronchi, frammischiata ad altri residuati della grande Guerra. A Romano Canalia, uno tra fondatori del Museo di Canove, stava a cuore quel pezzo raro, tuttavia la cifra in Lire richiesta per l’acquisto era esorbitante ed aumentava da una stagione all’altra. Più di un acquirente era in trattativa per accaparrarsi l’eccezionale reperto, ma lo stesso Sambugaro desiderava che il “suo” colpo rimanesse sull’Altopiano, guadagnandoci comunque il giusto: 1 milione e 500 mila lire. Canalia doveva racimolare i soldi in poco tempo, altrimenti i forestieri avrebbero avuto
partita vinta. “Una sudata colletta tra amici - ricorda- chi 50, chi 100 mila lire . Quella sera rincorrevo chiunque incontravo per strada o al bar. Con l’amico Magnabosco, contanti alla mano, raggiungemmo Campanella a Gallio con un vecchio Esa Delta munito di braccio sollevatore”.
Alla fine il bestione fu caricato sul pianale del camion, seguì un brindisi tra gli “azionisti” dell’impresa. “Dopo alcune ricerche – conclude il curatore del Museo – si venne a sapere che due di questi obici erano puntati sui Sette Comuni, uno a Serrada e l’altro a Monterovere. Certo che avere un proiettile integro a Canove è stata una grande soddisfazione, amplificata dal bossolo acquistato separatamente pochi anni fa da un collezionista di Udine. Si tratta di uno dei pezzi più ammirati del museo”.
Giovanni Dalle Fusine