Durante la prima Guerra mondiale Carzano è stata teatro, nel luglio 1917, di un episodio bellico di cui fu protagonista il maggiore del Servizio Informazioni (ITO) Cesare Pettorelli Lalatta. Si tratta del cosiddetto "sogno di Carzano" che, se realizzato come pianificato dal Pettorelli Lalatta, avrebbe consentito alle truppe italiane di dilagare in Valsugana e portarle forse fino a Trento. Purtroppo l'azione fallì, non certo per colpa del Pettorelli Lalatta, ma perché mal condotta dai generali preposti alla sua realizzazione.
Bello come un sogno, fantastico come una leggenda, Carzano avrebbe potuto e dovuto essere la Caporetto austriaca evitando all’Italia la tragedia dell’ottobre 1917. Invece fu un tentativo fallito. Nel bollettino austriaco del 19 settembre 1917 si legge: “Presso il Gruppo d’esercito del Feldmarschall Conrad von Hötzerdorf un contrattacco sferrato per la riconquista di un tratto di fronte momentaneamente ceduto al nemico presso Carzano, ebbe successo completo. Furono fatti prigionieri 6 ufficiali ed oltre 300 uomini”.
Altrettanto laconico il bollettino ufficiale italiano del 20 settembre 1917: “In direzione di Carzano (Valsugana) un nostro reparto riusciva a spingersi oltre le linee nemiche del torrente Maso e a catturarvi circa 200 prigionieri”. Nessun cenno alle gravi perdite subite: morti, feriti, dispersi, prigionieri. Insomma, un episodio insignificante, buono solo per la felice matita di Achille Beltrame, che austriaci e italiani preferirono oscurare. Gli italiani per la grave delusione patita, gli austriaci per il grandissimo pericolo corso nel cuore di quella notte di settembre. In Italia non ci furono fughe di notizie, indiscrezioni, commenti, anche perché Caporetto assorbì ogni forza, ogni pensiero.
Invece in Austria si susseguirono le inchieste e di Carzano si occupò prima il Consiglio di Difesa Nazionale poi in seduta pubblica la Camera dei Deputati. La verità venne a galla il 5 maggio del 1918 quando il Ministro della Difesa Nazionale parlò del tradimento di Carzano dicendo: “Il Paese si deve rallegrare per aver potuto superare, senza letali conseguenze per l’Impero, il grave pericolo che lo aveva minacciato, la cui gravità, basata sul più abbietto tradimento, era tale da sgomentare”.
Due giorni dopo, il critico militare Fabius scriveva su un giornale di Vienna: “La paralisi della nostra difesa nel settore di Carzano offrì agli italiani una rara chance di grande successo. Questo fu proprio offerto agli italiani sul vassoio, e ciò malgrado l’impresa fallì per l’incapacità del comando italiano, giacché gli italiani, stipandosi su un unico passaggio, persero tempo prezioso, non seppero conquistare di sorpresa punti strategicamente vitali. Profittando della sorpresa e dell’oscurità della notte, avrebbero potuto colpirci. È sorprendente che della brigata italiana, che era di riserva, nulla si sia sentito. È evidentemente mancato l’accordo fra il gruppo avanzato d’assalto e la brigata di riserva. Risolutezza ed energia hanno senza dubbio fatto difetto. Forse gli scaglioni retrostanti hanno avanzato con esitazione. Per questo l’operazione andò a rotoli”.
C’era stato un terribile tradimento, preludio alla disgregazione dell’Impero. E l’8 maggio 1918 sui giornali di Vienna si leggeva: “Apprendiamo con orrore che la cospirazione durò settimane, che sui prigionieri furono trovate riproduzioni fotografiche e topografiche di tutte le nostre posizioni, esatte in tutti i dettagli, che le nostre truppe vennero perfidamente frodate dei loro più efficaci mezzi di difesa, che lavori di difesa nostri furono appositamente ritardati. Una grande sciagura ci ha sfiorati”. Bello come un sogno, fantastico come una leggenda, Carzano avrebbe potuto e dovuto essere la Caporetto austriaca evitando all’Italia la tragedia dell’ottobre 1917. Invece fu un tentativo fallito.
"Caddi affranto su una sedia e piansi. Tutto lo sforzo di quegli ultimi mesi, tutte le fatiche, tutte le notti perdute si abbatterono come di schianto sulla mia tenace volontà: la partita era perduta, il sogno svanito. Appena rimessomi raggiunsi la piazzetta: giungeva in quel momento, portato da altri due intercettatori, un mio guardiafili: il soldato Corso. Esangue, disteso sulla barella, con la morte già negli occhi, egli mi sorrise: "Peccato - mormorò - ero così felice di essere venuto." E gli occhi si richiusero per sempre. Trattenni a stento i singhiozzi: tutti i miei intercettatori, a capo scoperto, si raccolsero silenziosamente attorno. "Il nostro bel sogno è crollato - dissi facendomi forza - ma non è intaccata la certezza della vittoria finale. Torniamo alla diuturna fatica, sono i nostri fanti morti che ce lo comandano. Sia pace e gloria al valoroso caduto". E lo baciai in fronte".
Cesare Pettorelli Lalatta Finzi
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Nel bollettino austriaco del 19 settembre 1917 si legge: “Presso il Gruppo d’esercito del Feldmarschall Conrad von Hötzerdorf un contrattacco sferrato per la riconquista di un tratto di fronte momentaneamente ceduto al nemico presso Carzano, ebbe successo completo. Furono fatti prigionieri 6 ufficiali ed oltre 300 uomini”. Altrettanto laconico il bollettino ufficiale italiano del 20 settembre 1917: “In direzione di Carzano (Valsugana) un nostro reparto riusciva a spingersi oltre le linee nemiche del torrente Maso e a catturarvi circa 200 prigionieri”. Nessun cenno alle gravi perdite subite: morti, feriti, dispersi, prigionieri. Insomma, un episodio insignificante, buono solo per la felice matita di Achille Beltrame, che austriaci e italiani preferirono oscurare.
Gli italiani per la grave delusione patita, gli austriaci per il grandissimo pericolo corso nel cuore di quella notte di settembre. In Italia non ci furono fughe di notizie, indiscrezioni, commenti, anche perché Caporetto assorbì ogni forza, ogni pensiero. Invece in Austria si susseguirono le inchieste e di Carzano si occupò prima il Consiglio di Difesa Nazionale poi in seduta pubblica la Camera dei Deputati. La verità venne a galla il 5 maggio del 1918 quando il Ministro della Difesa Nazionale parlò del tradimento di Carzano dicendo: “Il Paese si deve rallegrare per aver potuto superare, senza letali conseguenze per l’Impero, il grave pericolo che lo aveva minacciato, la cui gravità, basata sul più abbietto tradimento, era tale da sgomentare”.
Due giorni dopo, il critico militare Fabius scriveva su un giornale di Vienna: “La paralisi della nostra difesa nel settore di Carzano offrì agli italiani una rara chance di grande successo. Questo fu proprio offerto agli italiani sul vassoio, e ciò malgrado l’impresa fallì per l’incapacità del comando italiano, giacché gli italiani, stipandosi su un unico passaggio, persero tempo prezioso, non seppero conquistare di sorpresa punti strategicamente vitali. Profittando della sorpresa e dell’oscurità della notte, avrebbero potuto colpirci. È sorprendente che della brigata italiana, che era di riserva, nulla si sia sentito. È evidentemente mancato l’accordo fra il gruppo avanzato d’assalto e la brigata di riserva. Risolutezza ed energia hanno senza dubbio fatto difetto. Forse gli scaglioni retrostanti hanno avanzato con esitazione. Per questo l’operazione andò a rotoli”. C’era stato un terribile tradimento, preludio alla disgregazione dell’Impero. E l’8 maggio 1918 sui giornali di Vienna si leggeva: “Apprendiamo con orrore che la cospirazione durò settimane, che sui prigionieri furono trovate riproduzioni fotografiche e topografiche di tutte le nostre posizioni, esatte in tutti i dettagli, che le nostre truppe vennero perfidamente frodate dei loro più efficaci mezzi di difesa, che lavori di difesa nostri furono appositamente ritardati. Una grande sciagura ci ha sfiorati”.
"Bersaglieri "perduti"
Una rilettura di Luigi Sardi sulla Battaglia di Carzano, pubblicata da "L'Adige" di mercoledì 8 agosto 2007, a cura di Mattia Eccheli
La disfatta del primo conflitto mondiale a Caporetto cominciò in Trentino, a Carzano per la precisione. Con i "se" non si fa la storia, ma gli studiosi sono chiamati e forse sollecitati a rileggere nuovamente una della numerose e tragiche della "grande guerra": "Una delle tesi che sostengo - spiega il 68enne Luigi Sardi, per quasi quarant’anni giornalista ed inviato dell’Alto Adige - è che se l’esito della battaglia a Carzano fosse stato diverso, si sarebbe evitata la Caporetto nazionale". Nella controcopertina del libro "Carzano 1917", edito da Curcu & Genovese (302 pagine, 15 euro) c’è di più: "Bello come un sogno, fantastico come una leggenda, Carzano avrebbe potuto e dovuto essere la Caporetto austriaca evitando all’Italia la tragedia dell’ottobre 1917".
Stava per delinearsi una "Caporetto austriaca" fu invece il titolo di un articolo del Corriere della Sera dell’agosto del 1954: "Un gruppo di ufficiali sloveni, croati e cechi si era offerto nel 1917 di aprirci un varco in un delicatissimo settore della Valsugana; ma il colpo non ebbe gli sperati sviluppi", si legge nel sommario. Quella che si consumò nel piccolo comune della Valsugana (37 giorni prima della Waterloo italiana) è una complessa vicenda che intreccia un inutile tradimento ed un altrettanto inutile operazione di spionaggio (una delle poche che riguardano il regio esercito) con ordini titubanti. L’epilogo è drammatico: fra morti, feriti e prigionieri, l’esercito italiano perde oltre 900 uomini (di cui 13 ufficiali) in gran parte bersaglieri, quello austriaco un terzo.
I protagonisti del fatto narrato dal giornalista in occasione del raduno interregionale dei bersaglieri del 15-16 settembre a Carzano ("è la prima volta che un corpo che non sia quello degli alpini celebra una festa in Trentino") sono tre: l’ufficiale austriaco di origine bosniaca Ljudevit Pivko, il maggiore italiano Cesare Pettorelli Lalatta Finzi ed il generale del regio esercito Donato Etna. Pivko, per motivi ideologici, decide di passare all’Italia e offre informazioni dettagliate e complicità a Pettorelli Lalatta per condurre un’operazione da manuale per sfondare nelle linee nemiche già parzialmente sguarnite. Carzano è la "porta" che può spalancare al regio esercito la via verso la retroguardia austroungarica che sta preparando la battaglia di Caporetto.
"Il regio esercito - puntualizza Sardi, che ha già pubblicato diversi libri - aveva a disposizione tutte le coordinate relative all’artiglieria austriaca, ai depositi delle munizioni, alla dislocazione delle mitragliatrici e perfino ai colpi a disposizione per ciascun pezzo". Una raccolta meticolosa di dati che, però, non bastano al fin troppo prudente generale Etna per dare l’ordine di superare in forze le linee nemiche: "Con la mentalità di allora - azzarda Sardi - si può immaginare che ci fosse molta diffidenza per lo spionaggio ed anche nei confronti di un ufficiale che tradiva la bandiera". Il generale, peraltro figlio di re Vittorio Emanuele II e quindi in qualche modo "sponsorizzato" dai Savoia, temeva una imboscata che, tuttavia, non sarebbe mai avvenuta. Perché Pivko aveva addormentato i propri uomini aggiungendo al rancio serale dell’oppio. L’accordo con il maggiore Pettorelli Lalatta prevedeva proprio questo. E prevedeva anche che le truppe del regio esercito avrebbero dovuto infilarsi in questo strategico passaggio della difesa austriaca: la superiorità di uomini era schiacciante. Addirittura 44 mila soldati schierati dietro le linee. Invece, Etna concesse solo il via libera ad ottocento uomini che vennero successivamente sopraffatti dall’offensiva austriaca messa in allarme dai mancati collegamenti. Solo che i sorpresi militari del regio esercito guidati dal maggiore Giovanni Ramorino vennero praticamente annientati dalla risoluta difesa di meno di un mezzo migliaio di austriaci rastrellati fra gli incarichi più disparati ed anche dall’artiglieria italiana che, come si usava tracimante all’epoca, sparava su chi sventolava bandiera bianca.
Un bagno di sangue inutile che costò la vita a tantissimi bersaglieri, quelli del 72° Battaglione del 20° Reggimento. "Era già pronto un treno - racconta Sardi - che avrebbe potuto tranquillamente arrivare fino a Trento e sorprendere le guarnigioni austriache perché ai posti di controllo Pivko aveva sistemato militari fidati". Invece scattò anche la "rappresaglia": con l’accusa di tradimento diversi cospiratori del reggimento di Pivko vennero passati per le armi, altri imprigionati. Pivko venne incarcerato in Italia e venne salvato solo grazie all’intervento di Pettorelli Lalatta. Oggi restano ancora solo i morti dimenticati: "Auspico che si vogliamo andare a cercare le fosse comuni - conclude Luigi Sardi - che secondo me si trovano nell’area del torrente Maso, nel comune di Carzano. Non è una questione di bandiera ma di dignità".
Si ringrazia: Croxarie Progetto Memoria Valsugana Orientale |
Fonti:
Edizioni Curcu&Genovese Trento
G.D.F.