Per Guerra Bianca si intende generalmente la serie di scontri, inseriti nello scenario globale della Prima Guerra Mondiale, che avvennero sul fronte italiano a quote montane molto elevate e in condizioni fisiche, ambientali e meteorologiche fino ad allora ritenute impossibili e inavvicinabili per l'uomo e chiaramente per i soldati. Molto presto infatti, oltre al tradizionale nemico aggrappato alle estremità opposte di questa insolita terra di nessuno, si aggiunse un terzo, pressoché invincibile “contendente”: la morte bianca, vale a dire il costante pericolo di assideramento e, in generale, di dipartita violenta e brutale, dettata dalle impervie condizioni di vita imposte ai combattenti in alta quota. Possiamo affermare con certezza che, prima ancora di sparare, gli eserciti impegnati sulle Alpi, così come sulle Dolomiti, dovevano innanzitutto organizzare e cercare di assicurare la loro stessa sopravvivenza, in posizioni tanto estreme quanto difficilmente difendibili e pericolosissime. La nascita della Guerra Bianca La guerra in alta montagna nasce e si sviluppa proprio con lo scoppio della prima guerra mondiale, quasi esclusivamente sul fronte italiano. Non a caso, molti storici internazionali faticano ancor oggi a comprendere la profondità dell’argomento e le sue mille implicazioni umane, prima ancora che belliche e politiche. Del resto, il Fronte Occidentale che si snodava dalla Svizzera ai Paesi Bassi, fu teatro di tali e tanti massacri, da oscurare in qualche modo il settore Italo-Austriaco, peraltro già poco considerato dalle stesse forze dell’Intesa durante tutto il Conflitto. Inoltre, prima della Grande Guerra, i dogmi strategici degli stati maggiori internazionali avevano escluso la possibilità di impiegare truppe alle quote elevate che, sempre secondo i tecnici militari, in caso di conflitto sarebbero rimaste terra di nessuno o, al massimo, sarebbero state attraversate da qualche sparuta pattuglia di esploratori. Negli anni precedenti il conflitto qualche ufficiale delle truppe alpine, soprattutto fra gli austriaci, ma anche fra gli italiani, tentò di dimostrare il contrario, cioè che anche le montagne più alte sarebbero potute diventare luogo di scontro: ricordiamo per esempio le ardite scalate del futuro comandante del settore Ombretta nella Marmolada, Arturo Andreoletti e l'impresa del capitano Ludwig Scotti, che nell'inverno del 1913 portò una compagnia di Kaiserjager in cima alla stessa montagna, suscitando stupore e addirittura scandalo: ma gli stati maggiori non presero in considerazione queste dimostrazioni e non si preoccuparono di dare alcun tipo di istruzione alpinistica alle proprie truppe; col senno di poi ci sembra una cosa abbastanza assurda – basti considerare che la frontiera fra Italia e Austria-Ungheria era allora costituita per la maggior parte proprio da notevoli rilievi e picchi rocciosi! LO SVILUPPO DEL FRONTE MONTANO Ancora nei mesi precedenti al “maggio radioso” del 1915, la maggior parte del fronte di alta montagna, tra Italia ed Impero Austro-Ungarico, costituiva una “zona militare impraticabile”, rappresentata da semplici macchie bianche su qualsiasi carta degli Stati Maggiori interessati. Basti citare, ad esempio, che per la difesa del Gruppo dell’Ortles era stato reputato sufficiente occupare il Passo dello Stelvio; analogamente, il Gruppo delle Tofane, sulle Dolomiti, “non necessitava di alcun tipo di difesa”. Quando scoppiò il conflitto in Italia, due eserciti si ritrovarono, inevitabilmente, uno contro l’altro sul fronte alpino. Ad esempio, l’ala destra dello schieramento Austro-Ungarico che si appoggiava al punto triconfinale italiano, svizzero e austriaco: e arrivava alla Cima Garibaldi (Quota 2843 dello Stelvio), si sviluppava sulle più alte montagne che siano mai state teatro di combattimento, cosicché la vetta dell’Ortles (3905 m.) divenne automaticamente campo di combattimento. In sostanza, il fronte dell’ala destra austriaca si svolgeva su una linea ininterrotta, sopra le creste di ghiaccio dell’Ortles, sui ghiacciai e sulle montagne del gruppo dell’Adamello e della Presanella, raggiungendo le depressioni delle valli, passando nelle Giudicarie e nella vallata dell’Adige. Dal confine svizzero fino al declinare delle Alpi nella pianura lombarda, le linee di combattimento formavano un fronte montano che abbracciava quasi 100 chilometri e correva ad altezza quasi sempre superiore ai 3000 metri – il valico più basso era il Passo del Tonale, alto pur sempre 1900 metri! Partendo dal passo dello Stelvio, il fronte passava attraverso i gruppi montuosi più elevati delle Alpi orientali come l'Ortles Cevedale, l'Adamello e la Presanella. Scendeva poi nelle Giudicarie, in val d'Adige e dopo un tratto nelle prealpi in cui toccava il Pasubio e la zona di Asiago, tornava alle quote più elevate della catena dei Lagorai, della Marmolada, delle Dolomiti, del Comelico e delle Alpi Carniche. Anche se non possiamo certamente stilare una classifica dei peggiori e migliori teatri di battaglia della Grande Guerra, ne’ considerare privilegiato alcun tipo di combattente impegnato in cinque lunghissimi anni di conflitto, e’ certamente degno di menzione il fatto che le truppe alpine impegnate su questo nuovo fronte si trovarono, anche se costrette, a vivere a stretto contatto con una natura incontaminata, incastonata in scenari naturali di rara bellezza. In trincea, ad alta quota, non mancavano di certo gli onnipresenti pidocchi o il pericolo di valanghe e quello temutissimo dell’assideramento, ma di contro il panorama poteva forse anestetizzare leggermente le costanti angosce e i disagi delle truppe qui insediate. Ma già pochi giorni dopo l'inizio del conflitto i generali di entrambe le fazioni schierate si resero conto dei propri errori: seguendo un insolito spirito di emulazione della famosa “corsa al mare”, sviluppata sul Fronte Occidentale nel 1914, le zone montane che sarebbero dovute rimanere terra di nessuno furono invece sempre più spesso teatro di affannosi scontri. Ben presto si cominciarono ad occupare i passi, le “forcelle”, le creste, le cime e gli eserciti si spostarono rapidamente sempre più in alto. Là dove, fino a quel momento, osavano solo uccelli rapaci e camosci, arrivò anche l’uomo, nella sua più barbara e devastante apparizione: quella del guerriero. I "CAVALIERI" DELLE VETTE La tipologia del soldato alpino è forse quella più indovinata, a livello strategico e militare, in quanto la maggior parte delle truppe selezionate, almeno inizialmente, per combattere ad alta quota provenivano dalle stesse regioni montane interessate dal conflitto. Mentre l’arruolamento generico, che prevedeva l’assegnazione casuale a corpi e reparti indifferentemente destinati a molteplici impieghi e compiti, quando si trattò di selezionare Alpini, Kaiserjager e Landsturm (le milizie territoriali Austroungariche), si cercò di reclutare gli stessi contadini, pastori e montanari che conoscevano già il terreno che sarebbe diventato teatro di agguerriti scontri. Fu l’unica eccezione, in tutta la Grande Guerra, a canoni di reclutamento altrimenti fin troppo pedestri sconsiderati. Inoltre, questo genere di truppe “scelte” fu forse l’unico a incarnare naturalmente lo spirito di “difesa dei confini della Patria”, proprio perché direttamente interessato a proteggere i propri paesi, la propria comunità e soprattutto i modesti e sudatissimi possedimenti agricoli, ricavati su questo o quel pianoro o pascolo alpino. Come osserva la scrittrice Claudia De Marco: “… basta osservare la struttura delle cartoline reggimentali o pensare ai motivi di questo corpo [gli Alpini] – “Di qui non si passa”, “Vigilantes”, “Vedette dei culmini”… - per rendersi conto che gli Alpini nascono all’insegna del mito della difesa dei confini, di una nuova identità italiana.”. All’inizio della Grande Guerra per l’Italia, l’astuto inno patriottico della “Canzone del Piave” (composta ben due anni dopo per convincere le truppe e i posteri che il 24 maggio 1915 era stata l’Austria-Ungheria ad invadere il nostro Paese e non viceversa, come in realtà accadde) non era ancora stato scritto, pertanto gli unici soldati che realmente combattevano per difendersi dal presunto invasore erano proprio quelli posizionati su vedrette, forcelle e cime, al di là delle quali vi erano tutti i loro averi e possedimenti spirituali e materiali. Ben presto, tuttavia, la normale fanteria dovette rimpinguare necessariamente le truppe provenienti dai paesini di montagna, ormai decimate dopo i primi mesi di aspra lotta e durissime condizioni di vita in alta quota. Al contrario di quanto si possa credere e fatta eccezione per alcune battaglie “di materiali” combattute sull’Adamello, sul Col di Lana e sull’Ortigara, la guerra in montagna non assunse quasi mai i caratteri dello scontro di massa, tipici delle offensive combattute sul Carso, nelle Fiandre e sul Fronte Orientale. Per ironia della sorte, l’esperienza di guerra “in vetta” maturata dal generale tedesco Kraft von Dellmensingen, a capo dell’Alpenkorps stanziato nel settore della Marmolada, gli permise, nel 1917, di pianificare e dirigere abilmente lo sfondamento del fronte italiano, e la ripresa della guerra di movimento, proprio dalle cime che sovrastano Kobarid (Caporetto) in Slovenia. La natura stessa di questo insolito teatro di scontri rese dunque impossibile pianificare, supportare ed eseguire qualsiasi tipo di offensiva su larga scala. Di contro, allora, ci si dovette limitare a piccoli scontri tra pattuglie e, più in generale, alla difesa ad oltranza delle posizioni a cui si giunse durante le “scalate” iniziali. Ad esempio, ha sapore quasi leggendario l’episodio del duello che si svolse sulla vetta del monte Paterno il 4 luglio del 1915: Sepp Innerkofler, una famosa guida di Sesto di Pusteria, nel tentativo di cogliere di sorpresa il presidio italiano sulla vetta con una silenziosa scalata, venne scoperto quando era ormai quasi in cima e fu ucciso da un alpino con un sasso! E a questo episodio ci si può rifare anche per accennare all'estrema “cavalleria” che caratterizzò i combattenti delle montagne: gli stessi alpini che avevano ucciso Innerkofler rischiarono poi la vita per recuperarne la salma e seppellirla in cima al Monte. Del resto, come accennavo poco fa, molti di questi uomini provenivano dalle stesse valli in cui si combattevano: trentini, tirolesi, ladini, feltrini, bellunesi, cadorini si conoscevano fra di loro già prima della guerra grazie ai commerci, al contrabbando, all'emigrazione in cerca di lavoro. Molti fra loro, fra l’altro, erano famose guide alpine o alpinisti di chiara fama, come i già citati Arturo Andreoletti, Innerkofler, quindi Gunther Langes, Antonio Berti o la guida valdostana Giuseppe Gaspard. Spesso le stesse azioni militari diventavano delle vere imprese alpinistiche: come gli assalti al monte Cristallo e a Cima Trafoi nel gruppo dell'Ortles, o la presa del Corno di Cavento nell'Adamello; anche la Marmolada fu teatro di alcuni episodi alpinisticamente sensazionali, come la conquista da parte di una pattuglia di Alpini del battaglione "Val Cordevole", delle cime d’Ombretta a ben 3153 metri di altitudine – il tutto, effettuato con ardimento, spirito decisamente più sportivo che militare e pochi metri di semplice “corda manilla” e “lacci giapponese” per scalatori (rudimentali ed artigianali progenitori delle ben più evolute attrezzature alpinistiche di cui si dispone al giorno d’oggi). LA GUERRA DI MINE Parallelamente alla citata serie di modestissime offensive ed azioni di disturbo, compiute da pochi intrepidi alpinisti-soldati, si sviluppò tuttavia un altro insolito modo di far la guerra, che ritroveremo soltanto nelle Fiandre del Belgio: la cosiddetta “guerra di mine”. In sostanza, vista l’impossibilità di riprendere la guerra di movimento anche tra le improvvisate installazioni montane di entrambe gli schieramenti, si cercò di far sloggiare il nemico con l’esplosivo, arditamente posizionatogli in grandi quantità sotto trincee e capisaldi. Per far ciò intere squadre di minatori professionisti vennero reclutate ed affiancate alle truppe alpine, per scavare lunghi tunnel nel cuore delle montagne e raggiungere l’insolito e devastante scopo. Nei primi tempi lo scavo procedeva mediante esplosioni che frantumavano ghiaccio e roccia: si effettuavano vere e proprie trivellazione per posizionare i “fornelli di mina” che poi venivano fatti saltare. Il ghiaccio e la roccia distrutta durante gli scavi, venivano raccolti con pale e badili e quindi fatti scivolare su lamiere curve a guisa di grondaia, sino alle più vicine aperture dei crepacci, per scaricare infine i detriti a valle. Nulla doveva essere visibile all’esterno delle gallerie così realizzate, per non insospettire le sentinelle, gli osservatori e gli aeroplani nemici. Non sempre fu possibile reperire abbastanza esplosivo per gli scavi che, tuttavia, procedettero spesso a forza di braccia ed indicibili sacrifici dei minatori e delle truppe coinvolte. Gran parte dei soldati imparò ben presto a servirsi di qualsiasi attrezzo, esistente o addirittura improvvisato, per garantire medie di scavo di 6-8 metri al giorno ed anche più quando incontravano, ad esempio, provvidenziali crepacci che seguivano la loro stessa direzione. Vista l’estrema difficoltà e l’ingente impiego di uomini e risorse che comportava questo nuovo tipo di offesa, lo scavo delle mine venne concretamente attuato e sperimentato in tutta la sua valenza devastante in poche, particolari zone dell’intero fronte alpino: sul gruppo del Lagazuoi e sul Cimone d’Arsiero. Tuttavia, vale la pena di ricordare che analoghi, seppur modesti, tentativi di riprendere la guerra di movimento a colpi di ecrasite (l’esplosivo utilizzato allora per i fornelli di mina), si verificarono sulle Tofane, sulla Marmolada e, più in generale, ovunque si cercasse disperatamente di far sloggiare uno scomodo avamposto o un nido d’artiglieria in quota. Ben 34 furono quelle fatte saltare sul fronte trentino-tirolese e alcune, come quelle del Lagazuoi o del Col di Lana, cambiarono per sempre il volto delle montagne. Va da sé giungere infine alla conclusione che, anche se non si poté sempre scavare sotto i piedi del nemico, rudimentali catapulte e persino palloni aerostatici vennero realizzati per bombardare il nemico con barilotti di esplosivo, piuttosto che rischiare la vita dei singoli uomini, impegnandoli in impossibili ed infruttuosi, veri attacchi. A incrementare esponenzialmente il potere letale degli esplosivi, usati in montagna, contribuirono le scheggie di roccia prodotte e scagliate ovunque, in seguito a qualsiasi deflagrazione: se un fante in trincea sul Carso poteva a volte salvarsi, dopo essere finito sotto un cumulo di detriti terrosi, in seguito ad una granata, le truppe alpine avevano ben più modeste aspettative di sopravvivenza: ogni colpo di cannone ed ogni ordigno esplosivo, in montagna si trasformava automaticamente in una letale tempesta di shrapnel naturali! UN ALTRO INVINCIBILE NEMICO: LA MORTE BIANCA Silenzio e pace quale premio ai soldati che hanno combattuto sui monti; ed asperità della natura che impone eccezionali doti di uomo e di soldato nel compimento del proprio dovere. Ad un’altezza oltre la quale si spegne ogni forma di vita e la stessa natura si fa nemica dell’uomo, è difficile, anche alla presenza delle moderne tecnologie e dei sempre più avanzati ritrovati scientifici che possono portare l’uomo su altri pianeti, riuscire a credere e a capire come le truppe alpine impegnate nella Grande Guerra siano riuscite a continuare la propria esistenza in condizioni tanto impervie, quanto estreme. La lotta contro il maltempo e le tormente, il freddo e gli assideramenti diventò molto spesso più importante della lotta stessa contro il nemico. Soprattutto in inverno e alle quote più alte i combattimenti cessavano quasi del tutto e i soldati erano impegnati allo spasimo a difendersi dalla neve, a cercare di mantenere i collegamenti con il fondovalle per avere i rifornimenti di cibo e di legna per riscaldarsi, e a tenere le trincee sgombre. L'inverno fra il 1916 e il 1917, oltretutto, per sfortuna dei combattenti, fu tra i più freddi e nevosi del secolo e anche se ormai i due eserciti si erano organizzati per resistere alle alte quote con la costruzione di baracche, di ricoveri, di caverne nella roccia e di decine di chilometri di teleferiche per i rifornimenti, la vita divenne lo stesso quasi impossibile. Per sottrarsi alla morsa del maltempo nel ventre della Marmolada gli Austriaci costruirono una vera e propria città sotto il ghiacciaio con oltre otto chilometri di gallerie e ricoveri per gli uomini, depositi di viveri e munizioni, stazioni delle teleferiche, un'infermeria, gli uffici del comando: in tutto vi erano una trentina di caverne scavate nello spessore del ghiacciaio a parecchi metri di profondità, collegate fra loro da cunicoli muniti di ponticelli e passerelle. In qualche punto i soldati vivevano sino a quaranta metri sotto la superficie del ghiacciaio. La temperatura all'interno scendeva raramente sotto lo zero, mentre all'esterno il termometro segnava anche 20 sotto zero. L'ideatore di questo villaggio fu il capitano Leo Handl, comandante della compagnia di Bergfuhrer (cioè di guide alpine "militari") che si trovava sulla Marmolada. Impiegando dunque le stesse tecnologie offensive per lo scavo di gallerie di mina, analoghi tunnel vennero scavati anche sull'Adamello (dove per il trasporto vennero utilizzati cani e asini e dove venne realizzata una galleria lunga più di cinque chilometri che collegava il passo Garibaldi con il passo della Lobbia: era illuminata da 120 lampadine elettriche alimentate da due gruppi elettrogeni, attraversava 25 crepacci e aveva 80 camini per la ventilazione) e nell'Ortles. Sempre in Marmolada il 17 dicembre 1916 avvenne un tragico episodio che può essere preso ad esempio di un alto grave pericolo a cui dovevano far fronte i soldati in quella guerra: quello delle valanghe, un fenomeno che nell'inverno 1916-17 provocò più vittime dei combattimenti. Quel giorno un'enorme slavina, che è stata calcolata in oltre un milione di metri cubi di neve, travolse il villaggio di baracche austriaco del Gran Poz e provocò oltre 300 vittime. Le ultime salme poterono essere recuperate solo nella successivi primavera col disgelo. Ma tutto il fronte, più in generale, venne perennemente flagellato da disgrazie di questo genere, dall'Ortles all'Isonzo. ARMI ED EQUIPAGGIAMENTI DA MONTAGNA Portare un pezzo d’artiglieria in quota non era certo così semplice come impiegare un autocannone o un traino someggiato in pianura. Per questo motivo ci si dovette limitare a posizionare sulle vette di fronte alle posizioni avversarie, quasi esclusivamente piccoli o medi calibri: comunque sia con un immane sforzo e inimmaginabili sacrifici di centinaia di uomini coinvolti nel traino dei pezzi. Molteplici sentieri e mulattiere si tramutarono in innumerevoli calvari per tutte le truppe impegnate a trascinare a forza di braccia, pezzo dopo pezzo, ogni singolo cannone, fino alle posizioni desiderate e tanto facilmente identificate ed ordinate sulla mappa. La vera sfida, ancora una volta, non fu certo quella di colpire o danneggiare il nemico, bensì di arrivare là dove fino ad allora nessuno aveva mai osato, imponendo alla natura incontaminata e selvaggia questa tragica impronta del genere umano. Forse sono pochi a sapere che spesso anche le donne furono impegnate nella guerra in montagna: le stesse mogli, madri e parenti dei soldati si improvvisarono portatrici di generi alimentari e di conforto, raggiungendo con regolarità le truppe dislocate sulle cime e mettendo analogamente a repentaglio la propria vita. Un altro buon esempio di spirito di corpo, di squadra e di Patria, incarnato dalla totalità delle piccole, ma compatte comunità rurali montane, impegnate in tutti i modi a difendere la propria terra. Trasporti a fune e teleferiche sempre più evolute e versatili ebbero proprio qui un grande impulso. Così come la realizzazioni di strade e non più sentieri, di passi e non più di valichi, di carrozzabili e non più di semplici mulattiere. Ancora oggi, ci si trova a raggiungere amene località di villeggiatura in montagna, proprio grazie alle numerose vie di comunicazione tracciate da Alpini e Kaiserjager quasi un secolo fa. Chi va in montagna e chi ripercorre quei luoghi si ricordi di tutto questo. E soprattutto lo faccia con un rispetto ed un’ammirazione infinita, non certo dettata da un morboso interesse per la guerra che qui fu combattuta, ma esclusivamente dagli innumerevoli e impressionanti atti di eroismo e anche di semplice disciplina e rassegnazione di cui diedero prova i nostri progenitori. Ancora una volta, le giovanissime generazioni di un secolo fa morirono tra stenti, pericoli e indicibili patimenti anche in alta montagna, regalandoci un’inestimabile eredità di spirito di fratellanza, abnegazione e amor Patrio che oggi sarebbe certamente difficile, se non impossibile, riscoprire.