Irriverente e superficiale l’ultimo libro di Del Boca sul primo conflitto mondiale. La polemica disfattista si spreca in quest’opera che non distingue l’eroe dall’incompetenza di politici e alti ufficiali. L’Altopiano di Asiago non è quasi citato, il forte Luserna diventa Lucerna. "Grande guerra, piccoli generali" è l’ultimo libro del noto Lorenzo Del Boca, giornalista dal curriculum ineccepibile. “Iniziato” alla cronaca presso La Stampa ne è diventato capocronista, inviato speciale ed infine editorialista. Nel grande mondo del giornalismo è conosciuto per essere stato presidente della Federazione Nazionale della Stampa, approdando infine ai vertici con la qualifica di presidente dell’Ordine dei Giornalisti.
Già autore di saggi sul “Risorgimento ed età contemporanea”, scrive spesso con uno stile personale ben al di fuori dei soliti schemi, il linguaggio cioè propende più per la critica, comunque supportata da certe fonti, piuttosto che alla cronaca distaccata. Del Boca porta tuttavia a convalida delle proprie tesi una profonda conoscenza storica degli eventi politico-sociali europei. Il libro già nel titolo spiega il contenuto smitizzante, inizia smascherando nell’Italia le velleità di espansionismo coloniale, per introdurre il tema sulla grande Guerra parte così da molto lontano, da quella campagna “africana” che di strategico avevo poco o nulla ed i nemici più temibili erano il caldo infernale e le pietre arse dal sole. Con poche righe liquida la “spedizione punitiva sabauda” in Cina per sedare la rivolta dei Boxer, avanti velocemente tra notizie-gossip degli alti comandi arruffoni ed impreparati, la lunga introduzione termina con la guerra di Albania.
Non scopre nulla l’autore quando affonda la penna sulla pochezza delle colonie italiane, ma lascia qualche perplessità quando afferma che “i militari italiani non erano tagliati per la guerra. Altrettanto sindacabile la critica lasciata trasparire sul fucile modello “91”, “che nel 1915 aveva oltre vent’anni”, mentre è assodato che l’arma nulla aveva a che invidiare all’antagonista Mannlicher austriaco del 1895, mentre risulta errato l’aver definito “Metterli” il predecessore Wetterli-Vitali. Ma ne ha per tutti il giornalista-scrittore.
Vede il generalissimo Cadorna mentre compra azioni dell’industria bellica Ansaldo proprio a poche ore dalla sua nomina a Capo di Stato Maggiore. Su Vittorio Emanuele III scopre poco, se non l’immagine di un “donnaiolo a cui bastavano 50 minuti per sfoderare la propria mascolinità, per giunta pagando le donzelle a cui si accompagnava”.
Il lungo capitolo dedicato al piccolo re è spiegato pure che il soprannome “Sciaboletta” gli venne affibbiato per aver fatto dotare l’esercito di una sciabola più corta, a misura sua appunto, giacché la vecchia ordinanza avrebbe superato di gran lunga le gambine reali. La Regina Margherita: “una madre senza alcun senso materno”. Del Boca rincara la dose con tutti i generali in un crescendo che ha del corrosivo. Parla poco del conflitto sugli altipiani veneti (Asiago e Pasubio sono citati una volta soltanto, il forte Luserna diventa Lucerna), e molto delle battaglie sull’Hermada, San Michele, Isonzo e Piave. Risulta quasi ovvia l’affondo su Caporetto, con alpini e fanti allo sbando, pronti solo a voltar le spalle ad un nemico, suo malgrado, incapace di arrivare a Venezia. Laconico e personalissimo risulta il finale, quando si legge che “l’Italia non è quella di Vittorio Veneto. L’Italia autentica è, piuttosto, quella di Caporetto, perché il risorgere e il recuperare non è nel DNA della nazione.
"Grande guerra, piccoli generali" è in definitiva un punto di vista feroce, una cronaca ricca di scheletri d’armadio, molti dei quali già resi noti in altri contesti. Tuttavia è anche un resoconto sterile e incompleto, e, per dirla alla Del Boca: “spesso superficiale, come l’opera di certi italiani”.
Recensione di Giovanni Dalle Fusine (per gentile concessione dell'autore) |