Nel maggio 1915 l'Italia decise di intervenire nella Grande Guerra in corso per le ragioni che troviamo ottimamente esposte in un recente libro di Gian Enrico Rusconi, professore di scienza politica all'Università di Torino. E, innanzi tutto, per quel bisogno di grandezza che nel XX secolo animava tanti popoli, fra cui l'italiano.
La stampa interventista, dal «Corriere della sera» all'«Idea nazionale», ripeteva di continuo che l'Italia, restando neutrale, non sarebbe mai diventata "grande potenza". Varrà la pena di osservare che il bisogno di essere una grande potenza, capace di partecipare da protagonista ai G8, all'Unione europea, alle attività dell'Onu e degli altri organismi internazionali uttora presente nell'Italia di oggi, sempre in bilico fra l'essere considerata la prima delle piccole nazioni o l'ultima delle grandi.
Rusconi non ha incertezze: per capire ciò che siamo e i nostri attuali problemi verso il mondo esterno non dobbiamo dimenticare che: «Noi siamo i nipoti di quel maggio 1915». Una seconda spiegazione dell'intervento italiano deve essere cercata nelle previsioni errate fatte nel maggio 1915 dai politici e dai militari.
Quasi tutti pensavano che la guerra sarebbe stata breve e favorevole agli anglo-francesi. Il colpo mortale che la Germania avrebbe dovuto infliggere alla Francia nel 1914 non era riuscito.
Costretti a combattere su due fronti gli austro tedeschi si trovavano in gravi difficoltà e in febbraio ricevevano un duro colpo in Galizia, a opera dei russi. Tutto faceva pensare che non si sarebbero più ripresi. Il comandante supremo delle forze armate italiane, il generale Luigi Cadorna, sapeva che l'esercito da lui comandato aveva un peso tutto sommato modesto, ma lo riteneva sufficiente a capovolgere il rapporto di forza tra le parti belligeranti: «La bilancia è oggi oscillante e piuttosto a sfavore degli Imperi centrali - osservò nel dicembre 1914 -. Se un altro esercito viene gettato sul piatto avverso, dovrebbe traboccare». È vero che nei primi giorni del maggio 1915 i tedeschi e gli austriaci erano riusciti a riprendersi e a infliggere un duro colpo ai russi, ma la macchina di guerra dell'Italia non poteva essere più fermata. Occorreva continuare a credere ciecamente nel peso determinante dell'intervento italiano. Più in generale, in Italia come altrove, gli alti comandi erano in ritardo rispetto alla realtà.
Conducevano le battaglie con idee antiche e superate non avendo capito fino a qual punto le innovazioni tecnologiche avessero sconvolto il modo di combattere. Come sottolinea Rusconi, perfino il Piano Schlieffen, vale a dire quel piano di guerra apparentemente perfetto con il quale il supremo comando tedesco aveva pensato di piegare la Francia fin dalle prime settimane di guerra, era stato concepito nell'orizzonte politico e strategico del 1905-06, non risultando più valido.
In Italia i comandi militari soffrivano di ritardi culturali ancora più gravi e nella fiducia che essi coltivavano di raggiungere rapidamente Lubiana e Vienna possiamo trovare la terza spiegazione dell'intervento in guerra. La quarta spiegazione deve essere trovata nella stretta connessione tra gli obiettivi di politica estera e di politica interna.
Rusconi ci avverte fin dalle prime pagine del suo libro che lo scopo della sua ricerca è stato quello di «mettere a fuoco il nesso tra politica interna italiana e politica internazionale». Ci spiega poi come «la lotta contro Giolitti», vale a dire contro l'uomo politico che aveva segnato un'intera epoca della storia italiana, fosse diventata «parte integrante dell'interventismo».
Il ministro degli Esteri Sonnino e altri con lui intendevano difatti approfittare della guerra per «spazzare via il parlamentarismo giolittiano». Giolitti, a sua volta, era così furibondo che avrebbe voluto "fucilare" i membri di quel Governo interventista a lui tanto avverso. Siamo d'accordo con Rusconi, ma andiamo anche oltre le sue conclusioni poiché ci pare che proprio in questo nesso tra politica interna ed estera debba essere trovata la principale spiegazione dell'intervento. Il giolittismo era una pratica di governo fondata su una notevole dose di trasformismo, su frequenti compromessi con il partito socialista e su una manipolazione elettorale che affidava i risultati delle urne alle intimidazioni dei prefetti e dei potentati locali.
Gli antigiolittiani formavano una schiera numerosa e possente. Basti qui ricordare il presidente del Consiglio Salandra, il ministro degli Esteri Sonnino, il generale Cadorna, il senatore Luigi Albertini direttore del «Corriere della Sera», i nazionalisti raccolti attorno all'«Idea Nazionale», e altri personaggi di spicco da Gabriele D'Annunzio a Tomaso Monicelli (il padre di Mario Monicelli che nel 1959 diresse il famoso film contro quella guerra).
Anche Vittorio Emanuele III finì per farsi catturare dagli interventisti, sedotto dal loro programma imperialistico. Grazie alla guerra sembrò possibile, con poco sforzo, imprimere una svolta conservatrice alla politica italiana, chiudendo per sempre l'era giolittiana e assicurando il potere a ferventi monarchici conservatori e antisocialisti come Salandra, Sonnino, D'Annunzio o i nazionalisti.
La strada verso la vittoria militare sembrava spianata e il ruolo da grande potenza a portata di mano. L'esercito italiano sarebbe stato impegnato contro la sola Austria (la guerra alla Germania venne dichiarata il 27 agosto 1916) ma questo impegno circoscritto pareva sufficiente a far pesare il piatto della bilancia dalla parte dell'Intesa giustificando notevoli ricompense.
Pur di arrivare alla guerra gli interventisti non esitarono ad agitare, davanti al re, lo spauracchio della "rivoluzione". Fin dal 30 settembre 1914, Salandra scrisse una lettera al sovrano asserendo che era in gioco il supremo interesse del Paese, e non una mera questione «parlamentare o ministeriale». Salandra parlò al re dei pericoli che la monarchia poteva correre gestendo in modo maldestro la crisi in atto. Nel febbraio 1915, a sua volta, Sonnino fece notare che la monarchia sabauda era da tempo in difficoltà per i contrasti con la Chiesa cattolica e per il dilagare del socialismo.
Quindi, al di fuori di concessioni atte ad appagare il sentimento nazionale «non restava che una sola alternativa o guerra o rivoluzione». D'altra parte le agitazioni interventiste erano davvero uscite da ogni controllo, così che agli inizi del maggio 1915 perfino il ministro degli Esteri tedesco, von Jagow, arrivava a scrivere: «È probabile che se l'Italia non farà la guerra, scoppierà un'altra rivoluzione e questo il movente principale del governo. Ha lasciato salire la marea così in alto, che non può più arginarla».
Ma la marea era salita anche grazie ai finanziamenti che la Francia da una parte e gli Imperi centrali dall'altra avevano fatto pervenire agli schieramenti contrapposti. Giolitti non potè far nulla. Il 10 maggio, due settimane prima dell'intervento ebbe un colloquio chiarificatore col re. Vittorio Emanuele, il 26 aprile, aveva sottoscritto il Patto di Londra che lo impegnava a combattere dalla parte di Francia e Gran Bretagna. Il sovrano avrebbe potuto tirarsi indietro solo abdicando al trono.
Se, con i deputati a lui fedeli, Giolitti avesse continuato a opporsi all'intervento, l'Italia sarebbe andata incontro a una crisi istituzionale di proporzioni enormi e lui stesso ne sarebbe stato travolto. Appiattendosi sulle posizioni dei socialisti neutralisti e del Vaticano non avrebbe più avuto davanti a sé una qualunque prospettiva di rinnovamento costituzionale e liberale.
Piero Melograni "Travolti dalla marea di maggio",
"Il Sole 24 ore" 22 maggio 2005, p. 39 |