Come qualcuno ha forse inteso, sono in corso gli studi e le ricerche, sul terreno e negli archivi, per scrivere la Storia della Grande Guerra in Valtellina. Molti gli enti, che elencheremo a parte (...diamo a Cesare ciò che è di Cesare ...), che hanno aderito all’iniziativa. Tra cui le sezioni ANA Valtellinese e di Tirano. Il primo volume, dedicato alle premesse storiche, alle vicende precedenti al conflitto ed al 1915 uscirà all’inizio del 2007, il secondo, dedicato al resto della guerra ed alle vicende successive, nel 2008.
Ma non scrivo questo pezzo per farmi della pubblicità. Durante le ricerche, sfogliando cataloghi di librerie ed elenchi di biblioteche, mi sono accorto del mare magnum di opere su Caporetto. Sulla sfortunata battaglia hanno scritto praticamente tutti coloro che, a giusto titolo o solo per sentito dire, reputavano d’avere qualcosa da dire.
A partire da quegli «anni di ferro» sino ai giorni nostri. Tutto normale? Mica tanto. La Grande Guerra durò, sul fronte italiano, dal maggio 1915 al novembre 1918, come dire 43 mesi. Senza contare i preliminari, specie prima del nostro intervento, le trattative con gli Imperi Centrali e con l’Intesa ... e ciò che accadde dopo. In pratica le «code» della guerra, specie nell’area balcanica ma pure in Austria, Germania, in Europa centrale ed in Medio Oriente, proseguirono sino al 20’/21’.
E poi i nostri combatterono in Francia, in Albania, nei Balcani, persino in Palestina e contro i bolscevichi russi, senza contare la guerra, perché di guerra si trattava, in Libia, che si riaccese, causa il nostro necessario disimpegno militare e l’intervento attivo e ben comprensibile di Turchia e Germania, nostre avversarie europee. Eppure di tutto ciò si scrive poco o nulla.
L’Esercito italiano, nella Grande Guerra, subì 2 gravi sconfitte: durante la Strafexpedition, voluta dal Conrad sugli Altipiani, nel 1916, ed a Caporetto.
La prima batosta fu contenuta, sia pure con gravi difficoltà, la seconda fu certo ben più grave ma, come non ricordarlo, gli eserciti austroungarici che già avevano preparato tutto per l’occupazione di Venezia, furono infine fermati al Piave. Dopo la sconfitta sugli Altipiani ci rifacemmo conquistando Gorizia, dopo Caporetto, a 12 mesi di distanza, venne Vittorio Veneto e la Vittoria ... mica uno scherzo, dato che il nostro sfondamento, con l’annichilimento dell’esercito degli Asburgo, mise fine al conflitto: la Germania, mai realmente battuta, si trovò con i nostri soldati, assieme agli alleati franco-britannici, ai confini bavaresi. Già in somma difficoltà sul fronte francese non aveva uomini per difendersi a sud.
E fu la Pace e la Vittoria per l’Intesa. Mica poco. Ma di Gorizia, di Vittorio Veneto, della Bainsizza, altra netta vittoria nostra sull’Isonzo, si scrive poco, se non, da parte di molti stranieri, per svalutarle. Quanto a noi, l’abbiamo detto, Caporetto domina, quasi fosse l’unico fatto militare notevole della Grande Guerra.
Perchè tutto ciò? In parte perché noi italiani abbiamo un orgoglio nazionale che, Campionati del Mondo a parte (...e solo di calcio, ben s’intende ..!), è decisamente inferiore a quello degli altri popoli. Non voglio certo riscrivere le vicende di quegli anni ma farò solo un esempio.
Dopo Verdun ed alcune sanguinosissime fallite offensive, nell’Esercito francese vi furono delle sommosse, delle rivolte, dei veri ammutinamenti infinitamente più gravi delle nostre pur numerose incertezze e di simili disordini in alcuni reparti italiani, nel 1917, che secondo alcuni spiegherebbero Caporetto.
Al punto che, in Francia, interi reggimenti e brigate si incolonnarono al grido di «.. pace subito ..!» sulla via di Parigi. Furono presi a cannonate e decimati. Poi il Generale Pètain riuscì, in mesi di lavoro, a ricostruire fiducia e disciplina. Insomma si arrivò ad un soffio della catastrofe. Eppure di tutto ciò, in Francia, si parla e si scrive poco. Da noi ancora meno. I pochi volumi sull’argomento sono introvabili. La grandeur dei nostri cugini ne sarebbe troppo scossa e poi lo sappiamo: di destra o di sinistra ... la Francia viene prima!
Da noi no, noi amiamo crogiolarci nelle nostre disfatte e nei nostri insuccessi: per cui la grave sconfitta di Caporetto ha finito per trasformarsi in una sorta di simbolo della Grande Guerra, al posto, come sarebbe giusto e come è per francesi ed inglesi, della Vittoria. Ma questo rapporto perverso che abbiamo con la nostra storia, ha finito per condizionare pure gli scritti riguardo a fronti ben lontani da Caporetto, come il nostro Stelvio. Ove la storiografia (?!?) tirolese (o meglio sudtirolese) sta inventando una sua verità, assolutamente di parte e che qualche scrittore militare elvetico segue. Il tutto prendendo spunto, almeno in parte, da scritti, sia pure di autori validi ed attendibili, che riprendendo alcune opinioni del tempo, e che forse non hanno tenuto nel dovuto conto i documenti e pure la realtà militare dell’epoca.
Se vi recate allo Stelvio, nel settore tra la Quarta Cantoniera, il Passo Umbrail e la Cima delle Tre Lingue (nota da noi, chissà perchè, come Pizzo Garibaldi) troverete molti pannelli, redatti dall’Associazione elvetica Stelvio-Umbrail, che ha pure provveduto a segnalare itinerari non solo nel loro territorio ma anche in Italia. Un buon lavoro, chiaro, in più lingue, con foto, schizzi, piani operativi, elenchi di reparti. Da noi, per ora, nulla di tutto ciò.
Ma ... c’è un ma. I redattori dei pannelli, chiaramente gente con esperienza militare (il che in Svizzera non è certo un’eccezione) hanno preso per buona la versione sudtirolese. Che, per inneggiare allo «loro» vittoriosa resistenza, si è letteralmente inventata un’attitudine offensiva dell’Esercito italiano, dallo Stelvio al Garda. Su questo torneremo ma, per ora, rientriamo in Svizzera.
Se i nostri volevano scendere in Val Venosta, allora perchè non violare la neutralità elvetica e puntare, per la Val Monastero, a Glorenza, aggirando le «ferree» difese dello Stelvio? Tutta l’opera dell’Associazione Stelvio-Umbrail ruota, sul piano strategico, su questa teoria: la presenza dell’Esercito elvetico all’Umbrail sconsigliò ai nostri di penetrare in Val Monastero, per aggirare i valorosi tirolesi. L’ipotesi sarebbe logica, inutile negarlo, logica ed allettante. Peccato che nessun documento italiano mai, ma proprio mai, accenni ad un’ipotesi del genere.
I nostri comandi, allo Stelvio, avevano una sola consegna ed una sola idea: difendersi. Altro che «..aggirare le posizioni asburgiche ..!». Gli studi, i rapporti, trovati a Roma, parlano chiaro: negli anni precedenti il conflitto i nostri Comandi fecero una «manovra sulla carta», qualcosa tipo gli attuali «giochi di guerra» che servono per prevedere cosa potrebbe succedere in certe zone in caso di conflitto.
Il tema della manovra era una nostra offensiva dallo Stelvio e dal Tonale, su Bolzano. I risultati, secondo i documenti, furono chiarissimi: non conveniva e se lo si fosse fatto il transito per i valichi montani avrebbe creato problemi logistici tali da rendere l’offensiva assolutamente sconsigliabile. Punto e a capo. Così dicono i nostri documenti dell’epoca (che, per dire il vero, mostrano d’essere stati ben poco consultati...).
Ma non basta. A parte che di aggiramenti per la Svizzera non se ne parlava proprio, la presenza di un cuneo di territorio elvetico tra lo Stelvio e la Quarta Cantoniera preoccupava moltissimo i nostri alti ufficiali. Infatti se gli italiani si fossero schierato allo Stelvio, gli austriaci li avrebbero potuti aggirare facilmente, sconfinando per poche centinaia di metri in Svizzera, tra la Punta Rosa ed il Pizzo Garibaldi, per scendere direttamente alla Quarta Cantoniera. Ed allora, addio al presidio dello Stelvio! Si sarebbe trovato completamente aggirato, preso in trappola. Per cui i rapporti scrivono chiaramente che la linea migliore di difesa era dalla Punta di Rims, procedere per la Forcola ed il Monte Braulio, cioè proprio la linea che si scelse nel 1915.
Il territorio antistante, causa il pericolo d’aggiramento, andava abbandonato: del resto contava poco o nulla, se non si voleva «forzare» lo Stelvio verso la Venosta. Ma questa offensiva, l’abbiamo già detto, era ritenuta del tutto irrealistica. Strano a dirsi, i nostri amici svizzeri della Stelvio-Umbrail di tutto ciò paiono non sapere nulla, ne aver letto nulla. Per loro solo noi potevamo aggredire ed invadere; i tirolesi, chissà perchè, erano pacifici e si sarebbero attenuti ad una strettissima difensiva. Peccato che durante la Seconda e la Terza Guerra d’Indipendenza le cose fossero andate diversamente: con gli asburgici che, proprio grazie alle milizie tirolesi, scesero a Bormio e, nel ‘66, si spinsero sin verso Grosio (ed in Valcamonica a Vezza d’Olio)! Non meraviglia quindi che i nostri si preoccupassero.
Ma allora, da dove arriva la «voce» delle intenzioni offensive italiane? L’ottimo Tuana, uno degli eroi della difesa italiana dell’Ortles-Cevedale, splendido conduttore d’uomini ed ancor migliore esperto di montagna, pare abbia calorosamente invitato i nostri comandi a «tenere» lo Scorluzzo, fortificandolo. In tal modo, controllando l’importante montagna, si controllava pure il Passo Stelvio. Lui conosceva bene i luoghi: era infatti il custode della Terza Cantoniera. Aveva ragione ma i nostri comandi non erano per nulla interessati a «tenere» a tutti i costi lo Stelvio. Se lo si poteva fare, con pattuglie e qualche osservatore, per spiare le mosse avversarie in Val Trafoi, meglio. Ma se gli avversari avessero «preso» il valico non era un problema, dato che noi non volevamo procedere verso la Val d’Adige. Forse gli ufficiali non spiegarono a fondo le cose al buon Tuana, al tempo alpino semplice (poi, a furia di promozioni «sul campo», arrivò ad Aiutante di Battaglia, ai tempi una vera eccezione!), che restò convinto che abbandonare lo Scorluzzo fosse stato un grave errore e non fece mistero delle sue idee.
Puntualmente riprese da TUTTI gli scrittori successivi (compreso il sottoscritto, lo ammetto). Nessuno aveva avuto la pazienza e la costanza di andare a Roma a leggersi i documenti che spiegavano tutto. Ora noi li abbiamo trovati, letti e fotocopiati e, senza false modestie, crediamo che tali scritti chiariscano benissimo l’attitudine dei nostri comandi tellini, verso lo Scorluzzo e lo Stelvio. Ma i sudtirolesi, che certo quegli scritti non hanno probabilmente ne letto ne cercato, stanno inventandosi, come ho detto, una «loro» verità.
Fu il loro sommo valore ad impedire al nostro Esercito di penetrare nel SudTirolo. Per cui non è giusto che tali terre siano italiane: non le abbiamo infatti conquistate «armi alla mano». Questo, in sintesi, il loro punto di vista, riportato in molti scritti e libri.
A parte che, nell’epoca dell’EU, tali affermazioni suonano un tantinello ridicole, senza entrare in merito alla «giustizia» dell’assegnazione dell’Alto Adige all’Italia, chiariamo la vittoriosa e strenua difesa tirolese. Che i nostri vicini accorressero in massa sulle montagne che erano pure loro per difenderle è verissimo.
Che lo fecero con somma perizia e valore pure. Che tale atteggiamento meriti stima e rispetto anche. Ma la verità storica scrive che non furono le milizie tirolesi a dissuaderci dall’invadere le loro terre. Fummo noi a non volerlo fare. Sopratutto sul fronte lombardo. Il perchè l’abbiamo già detto: secondo i Comandi non era ne utile, ne pratico, ne logisticamente conveniente. Forse i Comandi si sbagliarono, nel prendere quella decisione. Anzi è probabile che abbiano errato. Ma i nostri Alti Comandi decisero di «lasciar stare» il Tirolo e di puntare su Gorizia, Trieste e Lubiana, per cooperare poi con Russia e Serbia, allo scopo di terminare il più rapidamente possibile il conflitto.
Che la storiografia recente tirolese sia un po’ fantasiosa lo provano anche certi volumi che parlano della «presa» dello Scorluzzo come di una grande e valorosissima azione militare. Che ci avrebbe causato pure perdite, fors’anche consistenti. La realtà e molto diversa. Sullo Scorluzzo c’era una sola smilza pattuglia italiana, con la consegna di osservare e di ritirarsi in caso d’attacco avversario.
Già Viazzi, nella sua mitica Guerra d’Aquile, pur riprendendo anche lui l’idea dell’errore dell’abbandono dello Scorluzzo, aveva scritto cosa successe. I nostri spararono qualche fucilata, poi visto che le poche decine d’assalitori raccogliticci proseguivano imperterriti, seguendo gli ordini si ritirarono. Tutto lì, poco d’eroico. Le nostre perdite? Nessuno.
I Diari Storici del celeberrimo Battaglione Tirano sono chiari e decisivi: giorno per giorno il Comandante annotava i fatti, le perdite, gli incidenti. Stanno a Roma anch’essi. Cosa dicono sullo Scorluzzo? Più o meno ciò che ha scritto Viazzi. In aggiunta non sembrano dare molta importanza alla cosa: solo la perdita di un osservatorio. Anche un contrattacco, subito ordinato, fu presto annullato. Lo Scorluzzo non valeva la vita nemmeno di un Alpino, questa almeno l’opinione del Sottosettore Valtellina che, nel 1915, dirigeva le azioni tra Stelvio e Gavia. Ci si limitò, ogni tanto, a bombardarlo con le artiglierie, inizialmente quelle del Forte di Bormio. Ed è notevole che, in tutti i mesi successivi, una sola volta i nostri siano andati, di soppiatto, all’attacco del mitico monte. E, dal contesto di quanto scrive il Comandante del Battaglione che al tempo presidiava la Val Braulio, parrebbe più per l’iniziativa di comandanti locali che per ordine superiore. Tutto qui, altro che «perdite italiane»! Ma sarebbe bastato, con un po’ d’esperienza militare, fare quattro conti, per rendersi conto che un’offensiva italiana allo Stelvio, con le forze il loco, non era realistica.
In tutto e per tutto noi avevamo tra Stelvio, Val Zebrù, Cancano e Livignasco, Valdisotto, Valfurva e Gavia due battaglioni, ovvero 6 compagnie, circa 1500/2000 uomini al massimo. I Battaglioni Tirano e Valtellina, con quasi nessuna artiglieria! Per avere un’attitudine più decisa sarebbe stato necessario almeno che gli altri reparti alpini tellini, il Morbegno ed il Val d’Intelvi, fossero stati accanto ai compagni (ed invece erano in Val Camonica) ... e probabilmente non sarebbe bastato ancora: cosa sarebbe servito attaccare con soli 3 o 4 mila uomini, se poi non si avevano le forze per procedere almeno sino alla Val Venosta? Ma ciò non era assolutamente possibile: quasi tutte le truppe alpine italiane erano concentrate verso oriente, i fortissimi colleghi dei reggimenti alpini piemontesi puntavano al Monte Nero, sopra Caporetto.
In Lombardia l’attitudine doveva essere quindi assolutamente difensiva e se si doveva rinunciare alla testata di Val Braulio ed allo Scorluzzo ... pazienza! Questa la verità storica come si deduce con grande chiarezza dai documenti e che è suffragata dalla logica. Non fu ne la difesa tirolese, ne la stupidità e l’indecisione dei nostri comandi (da molti invocate...) a far perdere lo Stelvio. Fu una decisione meditata e voluta, forse sbagliata ma certo non presa a caso. Sopratutto causa del rischio d’aggiramento attraverso il territorio elvetico.
Con buona pace degli amici sudtirolesi e dell’Associazione Stelvio-Unbrail!
Nemo Canetta, 2006
Gli enti, pubblici e privati, che appoggiano (sino ad oggi) la pubblicazione dei 2 volumi della Storia della Grande Guerra in Valtellina sono i seguenti:
Sponsor principali Provincia di Sondrio:
Assessorato Cultura
Credito Valtellinese
Altri sponsor (in ordine geografico):
Comune di Colico – Biblioteca
Comunita' di Morbegno
Comunita' di Sondrio
Pro Valtellina
Associazione Amici del Museo della Valmalenco
Museo e Città di Tirano
Albergo Baita Fiorita/Compagnoni
Svizzera Turismo
Ultima ora:
la Comunita' di Bormio/Alta Valtellina pare molto interessata alla pubblicazione, anche in funzione dei suoi numerosi progetti di valorizzazione storico-culturale.
Appoggio culturale e/o informativo:
ANA sezione Valtellina
ANA, sezione di Tirano
Museo Vallivo di Valfurva CAI,
S
ezione di Milano TCI, Biblioteca centrale
Biblioteca della Scuola Militare Teulié, Milano
Archivio dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito
Roma Museo ed Archivio storico della GGFF, Roma
Biblioteca Federale Militare, Berna
Altri enti culturali con cui sono in corso contatti culturali:
Museo dei KaiserJaeger – Innsbruck
Museo di Caporetto/Kobarid (Slovenia)
Archivio e Museo Militare di Vienna
Archivio e Museo Militare di Budapest