Torneranno i prati, il nuovo film di Ermanno Olmi sulla Grande Guerra
Girato principalmente ad Asiago, "Torneranno i prati" è ambientato durante la Grande Guerra: è il 1917, momento appena precedente a Caporetto, battaglia-simbolo della disfatta.Il film, girato in 35 millimetri, è stato realizzato con il contributo della Regione Veneto e riconosciuto di interesse culturale con il sostegno del Ministero dei Beni culturali e della Presidenza del Consiglio, nonchè applicando il protocollo Edison Green Movie per il cinema sostenibile.
La nostra recensione di "Torneranno i prati"
La possibilità di assistere ad una anteprima cinematografica si può tradurre in un giudizio scevro da influenze di sorta. Dopo che telegiornali e riviste specializzate avranno intervistato la crema dei critici della settima arte (tra cui si inseriscono con scontati apprezzamenti il presidente della repubblica Napolitano e il premier Renzi), risulterà più difficile non accodarsi agli elogi per questa nuova opera del maestro bergamasco. Ma, avendo potuto partecipare la sera del 5 novembre alla prima proiezione di “Torneranno i prati” in quel di Asiago, mi sorgono spontanee alcune considerazioni che sgorgano da una personalissima valutazione sui film di genere bellico. Se vediamo la pellicola, perché di pellicola si tratta e non di una elaborazione digitale, sotto l’aspetto poetico, tutto può apparire in positivo, educativo, ad uso e consumo di un monito pacifista lanciato ai posteri, opera artistica da interpretare.
Ma se partiamo dal concetto che un movie bellico, senza inserimenti di protagoniste al femminile a supporto della trama, ci vuole spiegare l’efferatezza delle guerre attraverso una ricostruita realtà del fronte e dei suoi protagonisti, allora “Torneranno i prati” non merita di entrare a far parte del filone su cui svettano immortali i vari “La Grande Guerra” di Monicelli, “All’Ovest niente di nuovo” di Milestone, o “Orizzonti di gloria” di Stanley Kubrick. Olmi cercava la poesia? Ma cosa c’è di poetico nella prima guerra mondiale? Poco, forse nulla: il cameratismo, un animale selvatico che di notte è libero di violare la terra di nessuno, un albero morente per i colpi inferti dalle granate? cose già viste. Da elogiare gli spunti raccolti per la sceneggiatura dalla diaristica sul conflitto, quali la censura militare impressa a timbro sulle cartoline, le foto dei famigliari sulle tavole dei ricoveri, l’insensatezza degli ordini piovuti dall’alto comando ignaro circa l’esatta situazione in prima linea, il cecchino nemico che inchioda chi tenta di ripristinare la linea telefonica (che, colpito, continua a scavare nella neve). Su tutto si elevano le parole del comandante che chiede i nomi dei suoi uomini caduti. A parte quest’ultimo, temi comunque già abusati su molte delle precedenti produzioni, e a mio dire qui trattati in maniera elementare. La trincea italiana sembra una brutta copia della fortezza Bastiani nel “Deserto dei Tartari”, dove il nemico è invisibile eppure c’è, qui la sua presenza è tradita dagli elogi con accento teutonico alla vedetta canterina, o quando uccide restando nascosto.
La guarnigione di fanti dell’avamposto, situato a 1800 metri, appare un lazzaretto, una categoria dantesca con plotoni di moribondi in attesa del trapasso a qualche girone infernale, tant’è che qualcuno precorre i tempi e arriva al suicidio, autolesionismo di grande effetto davanti all’ufficiale in comando, che guarda rassegnato il gesto del suo subalterno restando immobile. Credo sia l’unica fucilata che parte da un arma italiana per tutti gli 80 minuti del montaggio finale. Niente assalti, men che meno truppe in movimento, tutto è statico, buio, immobile, come la guerra di posizione tra le trincee di buona parte del fronte, certo la guerra non fu solo questo.
Per le esplosioni e per la costruzione del set la produzione aveva l’ecologico protocollo “Edison Green Movie” da seguire, tuttavia 20/30 metri di “cavalli di frisia” e relativo reticolato, son un po’ pochi per illustrare le difese passive di un avamposto situato ad un tiro di voce dal nemico, questa almeno è la misura che si ricava dalle inquadrature. Il regista comunque è supportato dal territorio della location, l’Altopiano dei Sette Comuni, luoghi fantastici, dove la Luna rende il tutto, oggetti, armi e uomini, avvolto da un alone d’ombre. La neve cadde copiosa l’inverno scorso, e durante le sette settimane di riprese offrì alla troupe un panorama da fiaba. Non si dia tutto il merito alla fotografia del figlio Fabio Olmi, parecchio lavoro lo ha fatto la natura, che sui Sette Comuni è da sempre la vera protagonista e non abbisogna di registi. Infine una ultima considerazione sul titolo.
Olmi in una delle molteplici interviste dedicate dice che “Torneranno i prati” ha la seguente motivazione: "In qualsiasi tragedia umana, stravolgimento epocale, dove alla fine rimangono ceneri e fiamme; qualsiasi di queste occasioni ha sempre un epilogo: è che tutto poi tornerà normale, come i prati, appunto". I pascoli forse potranno rigenerarsi, certo, i boschi pure, grazie al rimboschimento. Anche le contrade e i paesi distrutti dell’ex fronte oggi ci appaiono ricostruiti.
Ma non torneranno 9 milioni di militari morti durante il primo conflitto mondiale. Intere generazioni hanno sofferto e sono stati influenzate dai lutti. Bastassero dei prati verdi per trasmettere il messaggio di pace, avremmo già ettari di rimedi contro tutte le guerre del mondo. Ma sembra che la soluzione non sia adeguata, purtroppo, nemmeno se sopra vi son piantate lunghe file di croci.
Giovanni Dalle Fusine |